Giacomo Cimini è una di quelle scoperte che Internet ha trasformato da impensabili utopie a realtà, una boccata d’aria fresca per liberarci da quei canoni di successo hollywoodiano che rischiano di farci dimenticare cos’è il cinema: non solo immagine e tappeti rossi, ma passione, storie e un pizzico di follia.
Ci colleghiamo con un’ora di ritardo rispetto al programma e forse è una fortuna, perché nel frattempo finisco di vedere Tomorrowland ed entro così nel clima perfetto dell’intervista, visto che Giacomo ha concentrato la sua migliore produzione fino ad oggi proprio sul genere fantascientifico.
Ci tengo a raccontargli come, un giorno di qualche anno fa, ho trovato il suo nome come autore cinematografico.
Gli spiego così che dopo aver visto uno dei film del fantasmagorico produttore italo greco Ovidio Assonitis, mi è saltata la curiosità di vedere se fosse ancora in attività e così ho scoperto che l’ultimo film da lui prodotto è un lungometraggio diretto proprio da Cimini nel 2003 dal titolo “Red Riding Hood” (Cappuccetto Rosso).
STEFANO NICOLETTI: Apparentemente il tuo è un percorso inverso rispetto a quello classico che vede i registi affrontare prima i cortometraggi e poi il lungometraggio.
GIACOMO CIMINI: In realtà ho fatto almeno quattro anni di gavetta, partendo come schiavo di produzione e poi girando anche dei corti miei. Poi a 24 anni si è aperta quella che pensavo potesse essere una possibilità, il film di Assonitis. Colsi la palla al balzo, ma in quell’esperienza non c’è niente di mio. Dopo c’è stata l’esperienza televisiva della prima serie TV di “Delitti” e poi quando ho deciso di emigrare qui a Londra ho capito che avrei dovuto ricominciare completamente da zero nonostante i miei dieci anni di esperienza. Non ero riuscito a integrarmi coi meccanismi produttivi italiani, forse per mia presunzione, forse per la manca di spazi per il cinema di genere. Aver girato “Red Riding Hood”, un horror low budget, rischiava di farmi ghettizzare. Così mi sono iscritto alla London Film School.
SN: E lì è nato il corto City in the Sky, che io noleggiai su iTunes e che trovai veramente interessante da molti punti di vista, dall’estetica al soggetto.
GC: Sì, è stato il mio film di diploma. Quei tre anni della scuola mi hanno dato la possibilità di fare errori e di capire quale potesse essere la mia voce e la direzione da prendere. Le scuole di cinema, in una delle quali oggi insegno, hanno senz’altro il pregio di darti l’accesso a strumenti tecnici professionali e di farti concentrare a tempo pieno sul cinema. Per il resto la riflessione artistica l’ho maturata da solo, anche attraverso altri lavori meno riusciti che però non hanno avuto l’effetto immediato di espormi ai giudizi di Internet, come oggi avviene spesso. La funzione principale della scuola è questa, darti tempo.
SN: Ecco, Internet. Marcus Nispel qualche settimana fa ci ha detto che secondo lui Internet ha già fagocitato il cinema. Che ne pensi?
GC: A parte le perplessità che mi lascia il commentare la fotografia di un lavoro cinematografico su Youtube o sullo stesso Vimeo, quando si dà per morta una forma d’arte strana e complessa come quella del cinema, la vediamo rigenerarsi in nuove forme. I dati globali ci dicono: incassi altissimi, quantità di film prodotti sempre in crescita. Però quando ha esordito Tarantino con “Le Iene”, tutto il mondo si è fermato, mentre oggi ci sono esordi straordinari, penso ad esempio a Blue Ruin di Saulnier che ti consiglio di recuperare, che non diventano fenomeni, rimangono quasi sconosciuti. E’ sempre più difficile non solo esordire, ma anche continuare. Sta arrivando poi la realtà virtuale, che a differenza del 3D sembra avere qualche prospettiva in più. C’era il pericolo in verità che il cinema finisse solo sugli schermi dei cellulare, invece ci troviamo a casa invece televisori a 40 pollici a prezzi sempre decrescenti. Nei prossimi 10 anni avremo sempre di più il cinema in casa e con la realtà virtuale le distrazioni saranno sempre più vicine allo zero. In sostanza non credo che il cinema stia morendo, solo che stia affrontando grandi trasformazioni. Quest’anno il mio film preferito è stato Mad Max Fury Road: solo pensare che un film del genere sia stato realizzato ed esista è per me la prova tangibile della salute del cinema. Il cinema bello c’è sempre, ma noi, come ho cercato di raccontare in The Nostalgist, siamo tutti un po’ vittime della nostalgia.
SN: Possiamo dire che fai un cinema di genere?
GC: Sì. Credo però che tutto il cinema sia cinema di genere, anche quello autoriale che qui a Londra è chiamato Arthouse. Nel mio piccolo, la fantascienza di “City in the Sky” è una fantascienza autoriale, per i tempi, le tematiche… Diciamo che ultimamente faccio cinema di fantascienza.
SN: Deodato qualche settimana fa mi ha detto che lui è più neorealista di Rossellini, perché il cinema di genere è “il” modo di raccontare la realtà.
GC: Secondo me qualsiasi forma di narrazione è filtrata e in quanto tale irreale, parlare di reale nel cinema o nel documentario è eccessivo, nemmeno i Dardenne e il loro bambino con la maglietta rossa hanno a che fare con la realtà, perché il bambino per il solo fatto di avere quella maglietta rossa si astrae completamente. La realtà è la realtà, il cinema è un’altra cosa. Si può cercare di veicolare la spontaneità delle emozioni, però il reale in sé si può solo vivere. Queste filosofie, i ragionamenti sul cinema di genere, alla fine servono solo a cercare di vendere biglietti, sono categorie merceologiche.
SN: City in the Sky e The Nostalgist hanno molte differenze, ma anche molti punti in comune: la distopia, l’agorafobia di personaggi che temono anche solo di uscire di casa. Mi sembra difficile che siano coincidenze.
GC: Girando City in the Sky ho fatto amicizia con Daniel H. Wilson, lo scrittore del racconto dal quale è stato tratto anche The Nostalgist. Questo è un legame importante. Dal punto di vista personale ha influito il fatto di essere emigrato qui a Londra, un luogo nuovo dove per forza di cose culturalmente sarò sempre un estraneo. Riflessioni sulla solitudine, quelle che superi con l’amore, le relazioni, la curiosità, il rapporto padre-figlio, sono venuti naturali. Dentro c’è il riflesso dell’esperienza che ho vissuto e che sto vivendo in questo momento. Se vai a vivere in un altro paese diventi un esule ovunque ti trovi: non sarò mai inglese, ma al contempo fatico a riconoscere l’Italia. Anche se sono molto informato, non riesco più a stare bene lì, così come non sto completamente bene qui. Comunque, anche il prossimo progetto, come i due precedenti, sarà ambientato in un ambiente chiuso…
SN: Prima di parlare del progetto futuro, volevo chiederti riguardo a The Nostalgist: è un progetto molto ambizioso. Spesso progetti di questo genere falliscono, perché non è semplice mettere insieme tutto quello che sei riuscito a mettere dentro The Nostalgist, effetti speciali compresi. Perché puntare così in alto e non a una storia più a effetto, ma realizzabile con più facilità?
GC: La potenza evocativa delle storie che ti restano dentro ti spinge all’azione, c’è un elemento quasi sciamanico. Quando ho letto la storia mi sono trovato a 34 anni a dire: “Non sono un giovane esordiente: voglio dimostrare a me stesso che posso fare il mio piccolo Blade Runner.” C’è poi una componente di follia nell’ostinarsi a voler fare questo che è fondamentalmente un lavoro orrendo, meraviglioso se lo fai dai 20 ai 30 anni, ma che quando entrano in gioco le responsabilità capisci che non ti dà nessun appiglio. Sono cresciuto con Spielberg, Ridley Scott, per poi scoprire Kubrick… ma la mia ossessione è stato il Coppola di Apocalypse Now. Quindi mi sono reso conto di complicarmi molto le cose con certe storie… ma il punto è sempre uno: fare cinema. Avere ambizione cinematografica.
SN: Mi accennavi di un progetto futuro, di cui in giro però non ho letto niente.
GC: C’è pochissimo in giro, perché ogni volta che ho parlato prima di un progetto poi è deragliato… È un progetto di lungometraggio sul quale sto lavorando da anni. Ora ha una forma definitiva, stiamo cercando il cast, in particolare aspettiamo una risposta da un attore e stiamo cercando i finanziamenti. Ho scritto io la storia, stiamo ricevendo molti incoraggiamenti, abbiamo anche prodotto un teaser trailer. È ambientato in un sottomarino militare negli anni ’60.
Dopo una chiacchierata di quasi un’ora, è il momento di salutare Giacomo e i suoi occasionali “Oh my God”. Ascoltandolo sembra sentir respirare il grande agglomerato umano di cui ormai fa parte, con le sue grandi opportunità legate in modo indissolubile a grandi interrogativi.
Il cinema ci allena a guardare il mondo con distacco, eppur col massimo coinvolgimento. A immaginare, potendo pur tornare alla realtà. A giocare col fuoco, bruciandoci quel tanto che basta a farci sentire vivi. Sono un formatore in competenze relazionali, appassionato di racconti e di sviluppo personale.
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