Western atipico per molti aspetti Il grande silenzio è uno di quelle pellicole che oggi non ricorda più nessuno. In una città sommersa dalla neve, che non a caso si chiama Snow Hill, arriva Silenzio (Jean-Louis Trintignan), un bandito muto che non sopporta i bounty killer spietati. Uno di questi, Tigrero (Klaus Kinski), ha appena sterminato un gruppo di ricercati e adesso i loro famigliari pretendono vendetta. Tigrero e i suoi sono al soldo di un banchiere (Luigi Pistilli), corrotto fino al midollo che fa la cresta su ogni taglia, co-responsabile molti anni prima dell’uccisione dei genitori di Silenzio. Fu in quella occasione che per non far parlare il piccolo, involontario testimone della loro morte, gli furono tagliate le corde vocali.
Silenzio si muove pressoché da solo, troverà un po’ di calore umano nel letto di una vedova di colore (Vonetta McGee) e un alleato nel nuovo sceriffo del paese (Frank Wolff). Basterà per eliminare la feccia? Che il western italiano avesse in qualche modo spinto l’acceleratore sulla violenza è cosa scontata. Sergio Corbucci mantenendosi su questa strada decide coerentemente per un’impronta realistica e la porta fino in fondo: dita mozzate, volti che grondano sangue.
In nome di una maggiore autenticità quel pazzo di Klaus Kinski al momento di presentarsi al collega attore Frank Wolff lo apostrofò come sporco ebreo. Fece questo, disse lui dopo, per creare l’atmosfera ideale visto che i loro personaggi si odiavano. Wolff la cosa non la manda giù e si vendica durante la scena della scazzottata. «Frank gli ammollò una di quelle pizze storiche, niente affatto cinematografiche e quanto mai realistiche che, ne sono certo, Kinski deve ricordarsi ancora».
Ma soprattutto è in nome di una maggiore verità che Corbucci e Trintignan non se la sentirono di girare il finale previsto in cui Silenzio nonostante le mille difficoltà (ha anche le mani fratturate) riesce ad uccidere Tigrero. Non era umanamente né razionalmente possibile che ce la potesse fare, neanche con l’aiuto del redivivo sceriffo. Doveva morire. Girano così la scena della sua morte e la fanno vedere a Darryl Zanuck della Fox che non la prende bene e impone a Corbucci di girare la scena finale così com’è scritta nel copione. Corbucci, vecchia volpe, la gira con i piedi rendendola inutilizzabile alla moviola quando oramai era troppo tardi. Il film infatti esce con il finale triste, cupo e senza speranza. Zanuck non lo perdonerà mai. Se andate sulla sua pagina dell’imdb non trovate nella filmografia questo film, il che può significate tutto o niente.
Il grande silenzio è un film che negli ideali sta dalla parte degli emarginati. Il menomato (uno dei tanti nella filmografia di Sergio Corbucci) Silenzio, la vedova di colore Paoline, lo sceriffo solitario, la prostituta Regina, i fuorilegge che vivono tra le montagne in attesa di una imminente amnistia che forse non arriverà mai, per tutti questi personaggi Corbucci prova una certa empatia, farli morire (prima o dopo o insieme ma) tutti porta il film ad un livello superiore, ad una fiaba ancora di più per adulti perché oramai era giunta l’ora che il western non fosse più quello di prima. In questo senso Il grande silenzio è il punto di non ritorno dei western italiani per quella sua dualità che lo avvicina e, allo stesso tempo, lo allontana dal genere.
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