L’origine di Barton Fink.
!!! Leggete solo se avete visto il film !!!
Durante la scrittura del film sui gangster Crocevia della Morte, Joel e Ethan Coen cominciano a rallentare il loro ritmo di lavoro. Sono in difficoltà soprattutto per i tantissimi personaggi presenti, quasi tutti fondamentali per lo sviluppo della trama, anche se di fatto si vedono poco. Decidono allora di prendersi una pausa da quel lavoro e di dedicarsi a qualcosa di più semplice e in qualche modo autobiografico: la storia di uno scrittore in crisi. Nasce così nel giro di tre settimane la sceneggiatura di Barton Fink. Il film sarà da loro realizzato subito dopo Crocevia della Morte e presentato in concorso al Festival di Cannes il 18 maggio 1991.
1941. Barton Fink (John Turturro) è un drammaturgo di New York che, grazie al successo di uno spettacolo teatrale da lui scritto e incentrato sulla gente comune (“Cori in rovina” è il titolo), viene chiamato ad Hollywood. La casa di produzione di b-movies che lo ingaggia (la Capitol Pictures) gli chiede di scrivere un film sul wrestling. Niente di più semplice, una robetta che un altro eseguirebbe a occhi chiusi. Lui invece non riesce neanche a cominciare. Il blocco lo farà scivolare sempre più in una dimensione delirante.
Qual è il motivo che non fa scrivere Barton Fink? Principalmente perché predica bene e razzola male perdendosi tra mille pippe mentali. Professa che bisogna saper ascoltare gli uomini comuni per poterne scrivere, anzi si sente, dice di sentirsi, uno di loro. Ma quando conosce un suo rappresentante, Charlie, il chiassoso ed invadente vicino di stanza (interpretato da John Goodman) del fatiscente hotel di Hollywood dove alloggia, fa esattamente il contrario. Dice di stare dalla parte dell’uomo della strada però in realtà non ha mai visto un film commerciale sul wrestling, confessa addirittura di andare poco al cinema. Insomma è un intellettuale parecchio snob convinto di essere chissà chi, chiuso nella sua bolla. Un personaggio parecchio contraddittorio. Con questo ingaggio il nostro creatore di storie idealista, ipocrita, con la puzza sotto al naso, sbatte il muso sulla realtà ed entra a tutti gli effetti in un nuovo mondo.
Tutto questo non sarebbe possibile senza un altro personaggio del film: l’Earle Hotel dove Barton Fink alloggia.
Lì si svolge metà della vicenda e avvengono gli accadimenti cruciali. Il posto sembra avere una vita propria ed una vera simbiosi con Charlie. E poi ha un nome, Earle (ear in inglese vuol dire orecchio), che la dice lunga sul protagonista e i suoi problemi nel non saper/voler ascoltare gli altri. Un luogo che pare deserto se non fosse per la presenza di Charlie, del portiere Chet (Steve Buscemi), del vecchietto dell’ascensore (Harry Bugin), delle scarpe lasciate fuori le porte dai clienti e dei loro rumori che le sottili pareti lasciano arrivare ovunque. Una struttura che perde pezzi e pare disabitata, polverosa, vuota come la testa del protagonista, dove il suono ha un’importanza fondamentale sin dal suo arrivo lì, con il campanello nella reception che pare non interrompere mai il suo rumore metallico e che anticipa a Barton il tema del film sul wrestling che dovrà scrivere.
La stanza dell’hotel comunica anche con Barton.
Gli ribadisce in diversi modi la presenza del vicino di stanza, ospita zanzare rendendo la sua permanenza lì ancora più difficile e trasformando l’impossibile in possibile, visto che Hollywood è costruita sulla sabbia. Gli toglie la concentrazione necessaria per scrivere in diversi modi. Ma gli parla principalmente con quell’immagine appesa al muro della sua stanza di una ragazza su una spiaggia. Un vassoio di legno consumato, la personale finestra sul mondo di Barton, sopra la sua macchina da scrivere col foglio sempre bianco. Una immagine che evoca al nostro scrittore il rumore del mare.
E poi ci sono, dicevamo, le relazioni tra il posto e Charlie.
La carta da parati che si stacca dal muro come entra o esce dalla stanza di Barton. L’infezione al suo orecchio, di nuovo a richiamare il nome dell’albergo, le fiamme nel finale a rappresentare l’inferno nella sua testa. Perché a un certo punto salta fuori che Charlie si chiama in realtà Karl Mundt ed è un serial killer.
L’albergo trasuda umidità, marciume. Sensazione ottenuta anche grazie alle scenografie di Dennis Gassner e alla fotografia di Roger Deakins, qui alla prima collaborazione con i Coen.
Barton Fink e il suo nuovo amico Charlie.
Charlie possiede tutte le caratteristiche che Barton non ha ma (sotto sotto) vorrebbe avere. Appartiene alla classe sociale che si è prefissato di raccontare, e come se non bastasse conosce il wrestling e aiuta anche Barton insegnandogli qualche mossa. Di più: Charlie/Karl compie (o parrebbe compiere) tutte le azioni che Barton non fa per mancanza di coraggio. A cominciare dall’uccidere Audrey (Judy Davis) e W.P. Mayhew (John Mahoney): i due personaggi (chiave per la sua evoluzione) che incontra ad Hollywood. Il secondo è uno scrittore di una certa età (ispirato a William Faulkner) che Barton adora, o meglio adorava finché non scopre che è un disilluso e cinico alcolizzato che spaccia per suoi i lavori in realtà scritti dalla sua maltrattata segretaria-amante Audrey. Glielo confessa lei quando va da lui, nell’albergo, per dargli una mano con la sua scadenza sul film sul wrlesting. Odia Mayhew anche perché vede in lui se stesso da vecchio. Mayhew tratta Barton come fa questi con Charlie: con aria di superiorità, interrompendolo non appena apre bocca.
Così diversi eppure così uguali: Charlie/Karl il nazista, Barton l’ebreo comunista.
E lì, vuoi l’hotel, vuoi la presenza del vicino o la rivelazione fatta da lei la notte prima, accade l’impossibile. Barton si sveglia il giorno dopo con Audrey ancora affianco a lui (hanno consumato mentre la mdp entrava nel tubo del lavandino) ma morta ammazzata. E se ne accorge grazie ad una zanzara. Lui urla terrorizzato, corre al volo da Charlie che, credendo ciecamente nell’innocenza dell’amico, si offre di sbarazzarsi del corpo. E dopo un po’ salta per l’appunto fuori che Charlie in realtà si chiama Karl ed è un assassino seriale che decapita le sue vittime.
L’uccisione di Audrey in qualche modo sblocca il protagonista. Anche se il vero momento che lo fa partire è un altro, come vedremo tra un po’. Scrive entusiasta la sua sceneggiatura che viene però bruscamente rifiutata dal capoccia della Capital Pictures Jack Lipnick (Michael Lerner) principalmente perché non ci sono combattimenti, cioè quello che il pubblico vuole.
Il che vuol dire che Barton non vuole o non sa cambiare, che è un pesce fuor d’acqua che con quel posto non c’entra nulla. Rimane quello di prima: un idealista incatenato ai suoi modi sbagliati (per Hollywood), incapace dunque di accettare la realtà, qualunque essa sia. Ma è sotto contratto per cui dovrà restare a disposizione della casa di produzione.
Barton Fink resta quindi prigioniero di se stesso, della sua presunzione, del suo idealismo e delle sue convinzioni. Ma resta incatenato anche al nuovo mondo (di Hollywood) che manipola la realtà trasformandola in finzione e menzogna, ci precipita dentro senza neanche rendersene conto.
Forse.
Difficile dare una sola interpretazione ad un film così stratificato come Barton Fink.
Certo è che l’Earle Hotel dà una bella spinta all’infernale prigionia del drammaturgo.
Sempre al suo arrivo il portiere Chet gli domanda se è un “pass” o un “res”, se è di passaggio o resta per più tempo. Il giovane scrittore non sa ancora che quelli come lui arrivano ad Hollywood per non andarsene più. E infatti una volta salito in camera una delle prime cose che vede è la impolverata carta intestata con la scritta “A Day or a lifetime”, un giorno o tutta la vita.
La mecca del cinema fa questo con vocazione naturale: prende nuovi talenti, nomi in voga da qualche parte, li spreme e li plasma a seconda delle sue esigenze fino a ridurli in qualcos’altro, in prigionieri a vita sotto contratto. La menzogna è lì la normalità. Non si parla tanto della menzogna che c’è dietro il racconto cinematografico. Qui si parla più che altro della bugia come muro portante del palazzo Hollywood. Geisler (Tony Shalhoub) della Capitol Pictures che racconta balle al capo Lipnick per coprire i ritardi di Burton; Mayhew che si fa scrivere le cose da Audrey; i tanti scrittori, in attesa da qualche parte, in grado di scrivere con lo stile (o il tocco) di Barton Fink, come gli urla Lipnick quando commenta la sceneggiatura. Barton Fink, il commediografo che voleva raccontare la realtà, la vita vera, in particolare quella dei bassifondi, le piccole cose che accadono a piccoli uomini comuni, resta prigioniero di un infernale mondo alla rovescia in cui la manipolazione della verità sostituisce la vera realtà. E in quel finale enigmatico, di lui sulla spiaggia che incontra la ragazza del quadro, avviene il definitivo attraversamento di Barton nel nuovo mondo.
Forse. Anche, ma non solo.
Barton Fink è un film decisamente non convenzionale.
Sembra andare in una direzione ma improvvisamente ne prende un’altra. Pone domande ma raramente dà risposte, e quelle poche sono incomplete o peggio avvolgono ancora più nel mistero il tutto, le accettiamo anche se non ci convincono del tutto. Per questi motivi è stato etichettato come kafkiano, lynchiano, polanskiano.
Non a caso il festival di Cannes del 1991, con la giuria capitanata dal regista polacco di Repulsion, premierà il film con la palma d’oro, il premio per la regia e per l’interpretazione di John Turturro. Primo caso nella storia della rassegna francese che una sola pellicola prendesse tutti i premi principali.
Ed è un film con una logica tutta sua che lo spettatore accetta senza batter ciglio, anche quando vira di colpo verso qualcos’altro.
C’è un particolare che i terribili fratelli Coen riescono a far passare quasi inosservato ma che ha (o potrebbe avere) in realtà un’importanza fondamentale per capire veramente il film. Barton si sveglia con Audrey morta ammazzata affianco a lui nel letto, dice però a Charlie di non essersi accorto di nulla. Lì c’è forse la chiave per capire il film. Ma ai Coen piace prendere in giro e tormentare non solo il loro protagonista ma anche lo spettatore.
Certo è che l’hotel tutto è tranne che un semplice hotel. Forse è addirittura una rappresentazione del cervello e dei pensieri del protagonista mentre lotta per uscire dal suo blocco creativo e che trovano una loro forma materica nell’albergo e in particolare nella sua stanza.
Spieghiamo meglio.
Il protagonista deve scrivere una sceneggiatura sul wrestling ma non riesce a partire. Ecco che dalla stanza affianco si presenta Charlie, un omone grosso che più in là gli insegnerà anche qualche mossa. In altre parole incontra, immagina, crea, il suo protagonista. Una manna dal cielo che però Barton non sfrutta, con la puzza sotto il naso che si ritrova neanche gli stringe la mano all’inizio.
Essendo un parto della sua mente è la proiezione di una parte di sé. Un personaggio solo, come Barton, insoddisfatto, come Barton. Ma è anche, come dicevamo prima, il suo opposto (uno sovrappeso, l’altro magro), che fa quello che lui non ha il coraggio di fare: uccidere il sé da vecchio (Mayhew) e la sua donna ghost writer che partorisce idee. Diversi ma simili, con i tappi per le orecchie che Charlie usa per colpa di una infezione e Barton per isolarsi definitivamente e scrivere così la sua sceneggiatura. Gli altri ospiti dell’albergo, che non incontra mai ma ne percepisce la presenza, potrebbero rappresentare altre sue idee, altre storie, altre vite, che non trovano una forma, che restano nascoste.
Quindi l’hotel è, sarebbe, il luogo che rende possibile a Barton di uccidere i suoi fantasmi, ma è anche il suo personale ingresso per l’inferno.
Audrey però, attenzione, è l’unico personaggio che incontra sia al di fuori che dentro l’hotel. E questo, continuando con questa interpretazione, apre un bivio. La visita che fa a Barton nella sua stanza è una fantasia o è reale? La scoperta della sua uccisione ci viene mostrata in modo irrealistico, con il sangue ancora fresco che straripa da sotto il suo corpo sul letto. Il che non escluderebbe che sia una fantasia dello scrittore. Potrebbe essere una sua immaginazione anche quello che avviene fuori dall’Earle? Non appena Geisler suggerisce a Barton di parlare con qualche scrittore per uscire dal blocco, dialogo che avviene al New York Cafè, nostalgia di casa o gentilezza del produttore?, lui va in bagno dove per caso incontra per la prima volta Mayhew (ubriaco che vomita l’anima).
E se così fosse, cosa contiene il pacco che Charlie gli lascia in custodia dopo aver fatto sparire il corpo di Audrey? Scatola dalla quale Barton non si separa più portandola fuori l’albergo. Banalmente la testa di Audrey o metaforicamente la creatività dello scrittore, la sua testa? Non è un caso che il blocco del drammaturgo termini non appena Charlie/Karl gli lascia il pacco. Se il contenuto fosse stato davvero la testa della donna la puzza della sua decomposizione avrebbe insospettito qualcuno visto che con il pacco se ne va dappertutto. Barton lo porta con sé anche quando va alla Capital per prendersi un bel cazziatone da Lipnick, il quale gli dice che la sceneggiatura fa schifo (anche se l’ha letta un altro per lui) e la sua testa presuntuosa e vuota appartiene a loro. E poco prima Charlie/Karl confessava all’amico che il pacco in realtà non è suo.
La seconda ipotesi è decisamente più affascinante anche perché Barton Fink parla di irrazionalità e di follia.
Di due mondi, quello di Barton da una parte e quello reale dall’altra, che convivono in qualche modo pur essendo separati. Come una gigantesca dissolvenza incrociata che comincia con il suo arrivo ad Hollywood per non finire mai. L’hotel è il luogo in cui completa il suo isolamento nei confronti del mondo che non accetta.
È un film su una situazione che è sul punto di esplodere. Ed è ambientato negli Stati Uniti del 1941, anno della sua entrata nel secondo conflitto mondiale. Chi esplode però sono il protagonista bloccato dalla sua crisi creativa e il suo vicino Charlie/Karl. Così distanti eppure così simili per molti altri versi.
Barton Fink è il film dei Coen in cui i loro personaggi sopra le righe trovano una storia e una dimensione ideale.
Qui tutto è lucidamente folle, irrazionale, cerebrale, concettuale, freddo, distaccato e odoroso di tragedia. Come il suo protagonista. E se pensiamo che l’idea della storia di uno scrittore in crisi viene dal “blocco” dei Coen per Crocevia della Morte viene da dedurre che il film sia – più degli altri – un autoritratto in cui, nel modo ironico che li contraddistinguono, confluiscono i loro pensieri su la vita, il cinema, l’universo e tutto quanto.
Qualche curiosità su Barton Fink.
Seconda veloce apparizione nella filmografia dei Coen, dopo quella in Crocevia della Morte, per Steve Buscemi. In seguito con i due fratelli avrà ruoli più importanti in Fargo e Il Grande Lebowski.
Harry Bugin, l’attore che interpreta l’anziano ascensorista dell’Earle Hotel, appare anche ne Il Grande Lebowski nel ruolo dello scrittore Arthur Digby Sellers costretto nel polmone d’acciaio.
È uno dei film preferiti da Charlie Kaufman, lo sceneggiatore di Essere John Malkovich, Se Mi Lasci Ti Cancello, Anomalisa.
Il personaggio di Barton Fink è ispirato a Clifford Odets, regista e sceneggiatore de Il Ribelle (1944). Odets fu definito da Gary Cooper “poeta del reale”.
Sui titoli di testa il logo della 20th Century Fox è silenzioso e non accompagnato dalla solita musica.
Barton Fink è stato accostato a Shining per diversi motivi. Il tema dello scrittore in crisi; l’albergo che fa salire in superfice la follia; la neve (il freddo) da una parte e il caldo dall’altra; per i nomi dei due hotel che hanno a che fare con due distinti sensi: l’Earle (ear in inglese vuol dire orecchio, ribadiamo) di Barton Fink e l’Overlook (guardare) di Jack Torrence.
Il personaggio interpretato da John Goodman, Karl Mundt, era il nome di un senatore degli Stati Uniti del South Dakota attivo dal 1948 al 1973. Mundt è stato vicepresidente HUAC (House Un-American Activities Committee). Il comitato distrusse i mezzi di sussistenza di sceneggiatori, attori, registi, produttori e chiunque altro fosse accusato di avere tendenze comuniste. E Barton vuole difendere e raccontare i poveri.
John Turturro ha preso lezioni di dattilografia per imparare ad usare la macchina da scrivere. Nelle pause di lavorazione ha scritto la prima stesura di Romance & Cigarettes utilizzando la macchina da scrivere Underwood del film.
William Faulkner, il personaggio che ha ispirato WP Mayhew, appena arrivato ad Hollywood ha scritto Flesh (1932), un film di wrestling con protagonista Wallace Beery. Beery è anche il protagonista del film che Barton Fink deve scrivere.
La fittizia Capital Pictures tornerà nel film Ave, Cesare!, sempre diretto dai fratelli Coen.
Il 22 novembre 1991 Barton Fink esce nelle sale italiane.
Bibliografia:
Vincenzo Buccheri, Joel e Ethan Coen, Il Castoro, Milano, 1999.
Franco Marineo, Il Cinema dei Coen, Falsopiano, 1999.
AA.VV, Joel e Ethan Coen, Garage, Scriptorium, n°9, febbraio 1997.
AA.VV, Joel e Ethan Coen, Script/Leuto n°18, Dino Audino, 1991. (FUORI CATALOGO).
Giacomo Manzoli, Joel e Ethan Coen, Marsilio, 2013.
Alessandro Agostinelli, Un Mondo Perfetto – I Comandamenti dei fratelli Coen, Controluce (Nardò), 2013.
Vittorio Renzi, La Forma del vuoto, Bulzoni, 2005.
Claudio Rugiero, Barton Fink: dalla letteratura al cinema, Booksprint, 2017.
Barton Fink oggi è un film di difficile reperibilità in Italia. Il DVD fuori catalogo da anni (Filmauro) è venduto su Amazon a dei prezzi da rapina. I BD e DVD esteri non contengono la traccia in italiano né i sottotitoli nella nostra lingua. Sarebbe ora di una edizione italiana come cristo comanda, con dei contenuti speciali che non si riducano al solo trailer.
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