Matrix Resurrection non è esattamente un seguito né un rifacimento della trilogia.
È qualcosa che sta più nel mezzo perché il protagonista è lui ma non è lui, anche se ad interpretarlo è sempre Keanu Reeves. È semplicemente Thomas Anderson il programmatore, ma senza acqua alla gola e una vita da hacker con gli agenti federali che lo cercano. Ed è l’autore di una vendutissima trilogia di videogiochi di nome Matrix che ha per protagonisti Neo, Trinity, Morpheus, l’agente Smith e tutti gli altri che noi abbiamo visto nella trilogia cinematografica. Il progetto di realizzare un quarto gioco è la goccia che fa traboccare il vaso del suo fragile equilibrio psichico, ma che gli permette anche di vederci chiaro. Forse le storie e i personaggi non li ha inventati di sana pianta. Magari sono invece l’elaborazione della vita che lo circonda, oppure, meglio ancora, i ricordi di un’altra vita. Questo spiegherebbe davvero molte cose, al contrario di quello che gli dice l’analista (Neil Patrick Harris) anestetizzandolo con l’ansiolitico blu.
Ma alcune cose sono inevitabili perché il destino è già scritto, anche se la realtà e i fatti portano a pensare il contrario. E Anderson è e resta Neo, L’Eletto, anche se adesso appare agli occhi degli altri come un vecchio.
Matrix Resurrection ci ricorda che c’è chi combatte e chi si accontenta.
Che nella nostra vita, nel nostro viaggio, incontriamo archetipi che ci liberano o ci imprigionano: zavorre o insegnanti di volo. Che c’è un potere che tutto decide trasformandoci in pecore che si accontentano. Matrix, il potere, il sistema, esiste e il suo raggiro sta nel non farlo capire. Chi capisce l’inghippo può decidere di cabiare le cose, non solo la sua vita ma anche quella degli altri, perché no. Ognuno di noi può diventare il virus che infetta il sistema. Il punto è sempre quello: svegliarsi, scegliere da che parte stare, anche se la scelta è un illusione perché è tutto già stabilito.
Matrix e il suo universo sono sempre più attuali.
Le convenzioni sempre più pressanti, gli stupidi sempre più palesi e numerosi. Regole sociali che bloccano Thomas Anderson nella sua (apparente) vita di successo, e Tiffany (Carrie-Anne Moss) con la sua (noiosa) famiglia dalla quale scappa con le uscite in motocicletta. E se Anderson è sempre stato Neo L’Eletto, Tiffany è sempre stata Trinity perché anche per lei la scelta è risaputa.
E qui entrano in gioco le regole cinematografiche, drammaturgiche, estetiche. Da una parte Matrix Resurrections in qualche modo infatti abbandona la veste coreografica-registica della trilogia. La realizza in maniera meno spavalda, in linea con due personaggi (in là con gli anni) che si cercano dentro e fuori, e forse anche perché quell’estetica appartiene oramai ad un altro mondo. E ripropone altri personaggi dei vecchi film in maniera diversa. In particolare il nuovo agente Smith (Jonathan Groff), che adesso da collega di lavoro di Anderson-Neo riesce in qualche maniera a personificare meglio l’archetipo dell’ombra, del suo lato oscuro da arrivista. E contribuisce, con dei déjà-vu*, a fargli sorgere il sospetto che dietro ci sia altro.
Non succede però la stessa cosa con il sentimento cinematografico più abusato di tutti ovvero l’amore, che ritorna anche in questo nuovo capitolo ma in una veste esagerata, stucchevole.
Ricordiamo però che Matrix Resurrections nasce da un compromesso tra la regista Lana Wachowski e la Warner Bros.. Il che rende davvero sottile il confine tra il nuovo film e il nostro mondo, tra Neo e Lana. Una specularità che il film affronta con una certa ironia, mossa quanto mai azzeccata per descrivere al meglio il mondo (della casa produttrice) con i suoi bimbi minchia cresciuti al comando.
*: Il déjà-vu si riscontra negli stati emotivi eccezionali o tossici. È stato spiegato come un funzionamento non equilibrato dei due emisferi. (Fonte: Treccani).
Fondatore e amministratore del sito.
Contatto: robertojuniorfusco@klub99.it
Lascia un commento