Nick è ormai da tempo un fedele compagno delle mie serate di jazz all’Exwide di Pisa. È lui a togliermi dall’imbarazzo di una domanda che mi assilla da un po’: quali concerti vedere al Firenze Rocks, festival che propone Placebo, Eddie Vedder, Aerosmith, Linking Park, eccetera? “Andiamo a vedere i Radiohead?”
Nick è ormai da tempo un fedele compagno delle mie serate di jazz all’Exwide di Pisa. È lui a togliermi dall’imbarazzo di una domanda che mi assilla da un po’: quali concerti vedere al Firenze Rocks, festival che propone Placebo, Eddie Vedder, Aerosmith, Linking Park, eccetera? “Andiamo a vedere i Radiohead?”.
Non so se sarebbe stata la mia prima scelta, ma la compagnia per me ha un valore ben preciso, quindi dico sì, vada per i Radiohead. Ci sentiamo la mattina del concerto. Periodo lavorativo per entrambi, quindi mettere insieme lavoro, famiglia e imprevisti è un Camel Trophy, le nostre giornate una giungla personale senza alcun fuoristrada sotto il culo. Partiamo alle 19 e 30 quando sul palco c’è già il concerto di apertura di James Blunt, trascurabile senza rimpianti. Arrivare direttamente alle Cascine di Firenze ci sembra complicato, scegliamo di lasciare l’auto a Scandicci e di prendere il “trammino”, ma capiamo subito che anche quella è stata una scelta fantozziana, c’è tantissima gente in giro, auto parcheggiate ovunque, colonne umane alle biglietterie e alle fermate. Arriviamo alla Visarno Arena alle 21, tardi, tardissimo. Non riesco a credere che sia così tanta gente (la mattina dopo leggerò sui giornali commenti entusiastici con numeri a caso tra i trentamila e i cinquantamila, consueto sensazionalismo lontano dalla realtà) quindi ci buttiamo subito dentro, manca mezz’ora al concerto e non abbiamo né mangiato né bevuto, ci saranno trentacinque gradi e un’umidità che ti pesa continuamente sulle spalle.
Le misure di sicurezze sono notevoli. Un ragazzo davanti a noi viene fermato da un cane lupo della Guardia di Finanza che gli annusa con grande convinzione il pacco e le tasche davanti dei jeans. Il giovane si lascia trascinare via con la stessa faccia sorpresa e mortificata che avreste voi se veniste colpiti tra dieci secondi da un meteorite. Sì amico, la vita è così, non succede mai ai concerti, ma stasera…
Gli stand sono presi d’assalto. Centinaia di metri di coda ovunque… tranne che allo stand dei gelati Sammontana, miraggio in un deserto di teste, piedi, mani.
Ci guardiamo: vada per il gelato, in attesa di momenti migliori.
“Il gettone?” ci chiede la ragazza dietro il banco.
Scopriamo così che nella Repubblica Autonoma del Visarno Rock si paga coi token, maledetti gettoni blu che ti vengono concessi in cambio dei soldi veri a un altro stand che è circondato naturalmente da una marea umana. Il concerto comincia, almeno quello.
Abbiamo perso tempo, ci troviamo a una distanza siderale dal palco, i Radiohead sono briciole lontane. I quattro maxischermi sono di dimensione ridicola e mixano continuamente le immagini di tutti e sei i musicisti sul palco, quindi né utili, né suggestivi.
Canzone dopo canzone, i Radiohead virano dalla progressive al drum’n’bass senza imporre affatto uno stile, un’originalità, un canone. Quasi allergici a ciò che li ha resi quello che sono oggi (i primi album) si rifugiano in un angolo tutto loro, autoreferenziale. Tra un pezzo e l’altro anche due minuti di silenzio, spettacolo senza alcun ritmo. Così, nonostante le sinfonie di bassi e batterie, ci troviamo dentro una delle platee più fredde di cui io abbia mai fatto parte.
“Ci vorrebbero una sdraio e una birra”, mi stuzzica Nick.
La birra. Bere è un bisogno primario, mai dimenticarlo. Ci fissiamo un attimo e l’attimo dopo siamo davanti agli stand dove la coda è quasi evaporata. Due minuti dopo mi siedo con una Nastro Azzurro alla spina davanti, soffro scientemente ancora qualche secondo per aumentare il piacere che verrà e poi sorseggio con calma una delle birre più buone che io abbia mai bevuto. Grazie al caldo, alla sete e alla noia, perché i Radiohead lasciano scorrere canzoni tutte uguali, o diversamente uguali se proprio vogliamo accontentare qualche fan irriducibile che davanti al palco si sente obbligato a ballare e saltare: il resto della platea vivacchia, dorme, fuma abbondantemente per cercare quegli effetti che non troverà stasera con la musica.
Solo sul finale i Radiohead concedono qualcosa al pubblico, rompendo l’egoismo dell’artista che non si sente obbligato a soddisfare nessuno se non sé stesso e i suoi discepoli. Suonano “Karma police” e quando finisce il concerto è molto significativo che i cinquantamila escano dall’arena cantando proprio senza fine “I lost myself, I lost myself…”, il ritornello di questo pezzo.
Esco pensando: dio, ho bisogno di Rock.
Devo solo attendere due settimane: mi aspettano i Cult al Pistoia Blues.
Il cinema ci allena a guardare il mondo con distacco, eppur col massimo coinvolgimento. A immaginare, potendo pur tornare alla realtà. A giocare col fuoco, bruciandoci quel tanto che basta a farci sentire vivi. Sono un formatore in competenze relazionali, appassionato di racconti e di sviluppo personale.
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