Ai tempi di Epidemic Lars von Trier a un certo punto diceva al collega sceneggiatore Niels Vorsel che il cinema è come un sassolino nella scarpa, un sassolino che, aggiungo io, una volta tolto finisce nelle scarpe degli spettatori trasformandosi in macigno.
Ma Lars von Trier è così: un bambino sadico che ama torturare le sue vittime, siano essi i protagonisti dei suoi film o i suoi spettatori. È come un bambino un po’ imbecille che brucia un formicaio per goderne degli effetti. Il suo cinema è tutto e il contrario di tutto, semplice eppure complesso, volutamente spiazzante, irritante, persino banale in alcuni punti salvo poi sorprenderci subito dopo. Con Melancholia dà sfogo più che mai alla sua misantropia che qui pare amplificarsi in un ben più negativo rifiuto per ogni forma di vita biologica.
Melancholia è un pianeta nascosto fino a poco tempo fa dietro il sole e che adesso punta dritto verso la Terra dopo aver lisciato Mercurio e Venere. Ci prenderà in pieno eliminando la sola forma di vita in tutto l’universo, perché secondo la depressa ma lungimirante Justine la vita c’è solo sulla Terra e merita di essere distrutta.
La ragazza, moderna Cassandra, in qualche modo, intuendo come tutto finirà di lì a breve manda all’aria il matrimonio con il figlio del suo capo neanche il tempo di finire i festeggiamenti, proprio perché vuole togliersi il sassolino dalla scarpa, per andarsene con la coscienza pulita, soddisfatta di aver mandato all’altro paese il suo arrogante suocero, sicura nel pensare che la fine del mondo è cosa buona e giusta, anche se Melancholia è ancora un puntino nel cielo. Ecco, l’impatto distruttivo con Melancholia è il sogno di Justine che si concretizza, l’ultima invettiva del sempre più folle Lars.
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