Da un film diretto da Shawn Levy, quello dei due Una notte al museo, e prodotto dall’attivissimo e sempre meno cattivo Steven Spielberg non è che uno si debba aspettare chissà quali crudeltà, e infatti Real steel è un prodotto per tutta la famiglia con la sua bella lezione che gli ultimi saranno i primi e altre menate simili e in cui di sangue non se ne vede una goccia neanche col binocolo.
D’accordo, magari qualcuno obietterà: come fa ad esserci del sangue se nella pellicola la boxe non viene combattuta tra esseri umani bensì tra robot? Rispondo allora che il liquame rosso non si vede neanche quando i creditori incazzati pestano Charlie davanti al figlio ritrovato. Ribatto che il racconto Acciaio di Richard Matheson da cui tutto parte (contenuto nella raccolta Duel e altri racconti edito dalla Fanucci) parlava di pugilato tra robot simili ad esseri umani e di un ex boxeur, detto ai tempi suoi d’oro Acciaio, che si finge uno di loro per tirarsi fuori dai debiti. Lì sangue e dolore sono presenti, il riscatto, la risalita, la fine delle noie, chiamateli come vi pare restano lontani, l’unica consolazione per Acciaio è che non ci ha rimesso la pelle.
Qui invece, nel film di Levy, i creditori fanno una brutta fine anche se tutti i torti non li avevano, Charlie ottiene -grazie al figlio ritrovato-l’opportunità della sua vita, una seconda chance che anche se lo fa arrivare in fin dei conti secondo, come nel primo Rocky, va bene così perchè lui è il vincitore morale, il piccolo Golia che batte il gigante Davide.
In definitiva quello che differenzia il racconto di Matheson dal film Real steel è il concetto di sopravvivenza. Qui non si lotta per restare in vita come accade anche in Running man o in Battle royale, qui si lotta per emergere, per realizzare il fottuto sogno americano. Almeno Balboa alla fine del film era una maschera di sangue…
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