Da una parte La Città Vuota ha una sceneggiatura (scritta da Luigi Salerno) interessante, che racconta il viaggio di un uomo alla ricerca delle sue verità e di una pace dai suoi sensi di colpa. La cosa stuzzicante non è tanto dove si voglia andare a parare, quale sarà l’evolversi della faccenda, come terminerà il viaggio (a piedi) del nostro eroe Faber (Fabio Pasquini).
Che tutto quello che vediamo sia legato in qualche modo al mondo dell’onirico, dell’immaginazione, del ricordo, e non sia dunque reale lo si capisce presto: a cominciare dalle voci off che si sentono sin dall’inizio e arrivano improvvisamente sorprendendo il protagonista, ma anche dagli incontri che il protagonista fa lungo il suo lento e continuo camminare. E sono soprattutto le parole e i dialoghi a convincerci, a ribadire, che c’è qualcosa che non va. Frasi poetiche, metaforiche, evocative, inquietanti, che nascondono altri significati e richiamano ad altro, irreali.
Quello che non funziona a tempo pieno in questo gioco suggestivo è la direzione degli attori, non sempre calibrata per rendere credibile l’incredibile che accade e che ascoltiamo. Purtroppo questo difetto emerge in special modo nella parte finale, quando i nodi vengono al pettine, a cominciare dal momento in cui Faber ascolta nella hall dell’albergo il collezionista mentore (Giancarlo Del Monte) parlargli del suo rapporto con Laura (Maria Chiara Tofone).
Ma stiamo parlando di un film indipendente dal budget molto basso e apprezziamo lo sforzo di voler uscire fuori dagli schemi prendendosi dei rischi. La strada imboccata dai due registi Thomas Battista e Fabrizio Fiore pareva giusta, e sono da apprezzare ad esempio le diverse scenografie e la fotografia di Giuliano Tomassacci e Stefano Petti per aiutarci ad entrare nel clima desolante e misterioso della storia.
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